La vera (?) storia di Marco Ranfo ovvero della “Congiura dei ranfi”

Pubblichiamo da Sergio Lorenzutti

Ho letto un pò di roba sull’argomento e quanto sto per proporvi mi pare sia più di una semplice supposizione letteraria. Starà a voi decidere se vi piace o meno e cosa ne pensate in merito a questo tragico ed illogico avvenimento avvenuto nella nostra città del ‘300 che oggi definiremo come fattaccio di cronaca nera ma che in effetti portò alla distruzione della famiglia dei Ranfi e delle loro proprietà in città e della confisca degli altri beni nel territorio in zona S. Dorligo,  Val Rosandra e viciniori..
Elisabetta Rigotti è l’unica che ci spiega meglio di tutti cosa portò alla distruzione della famiglia del Ranfi e delle loro proprietà in città e della confisca degli altri beni nel territorio in zona S. Dorligo,  Val Rosandra e viciniori; fu semplicemente una un atto di bassa macelleria perpetrata dal Sacro Uffizio, comandato allora da un triestino. La condanna a morte di Marcus, un Templare e dei suoi familiari appare evidente esser stata dettata dagli intrighi, odi e invidie che smossero tanto le coscienze e ancor di più i portafogli di alcuni importanti cittadini ben intortati con il Potere civile ed Ecclesiastico.
Marcus von Diessen  dimenticato volutamente con una DAMNATIO MEMORIAE che comprendeva la distruzione per incendio della sua dimora con gran finale di spargimento abbondante di sale sulle ceneri per evitare ogni sorta di possibile crescita di piante spontanee venne uccisi, badate bene ai numeri, il 13 settembre del 1313 dalle 13 Casate triestine. Quindi divenne un traditore della Patria e ancor altro di nefasto pur non avendone colpa alcuna. Il 13 allora come oggi non portava sfortuna ma era il simbolo della morte, portava male fino alla fine vita. D’altra parte rappresentava anche il bene cioè la resurrezione, ma era la prima impressione quella che aveva maggior peso e divulgazione arrivando fino a noi. 
Nella risistemazione della biblioteca dell’ultimo Patrizio tergestino Domenico Rossetti, che nel 1818 aveva chiesto congiuntamente all’Assemblea Comunale alla Corte Imperiale di dichiarare Trieste “ Città  Fedelissima “, risulterebbe che venissero ritrovati casualmente tra lo schienale in pelle ed il testo di un antico volume alcuni foglietti scritti a penna.
Il paggio di Domenico aveva trovato questi viglietti mentre metteva a posto alcuni volumi che erano stati spostati per consultazione dal Rossetti. Erano caduti appunto dal dorso di un libro in pelle di vitello e li porse al suo padrone che  vi lesse con gran stupore la storia di questo tragico misfatto dimenticato volutamente dalla storiografa cittadina. Si trattava della vera storia di Marco Ranfo e della sua famiglia? Parrebbe di si perchè tempo dopo il Barone riconobbe in quelle paginette il fascicolo 125 mancante nel quarto libro della raccolta degli Statuti del 1318, dove si descriveva a grandi linee la tragedia di quella famiglia.
Da qui iniziò il suo ricercare in vari archivi pubblici e privati materiale sussidiario per completare al meglio questa fino ad oggi sconosciuta vendetta personale basata su invidia, spilorceria fetida, odio viscerale e tantissima cattiveria.  
Dove si descriveva a grandi linee la tragedia di quella famiglia.
Si inizia dal 1207 nella casa castello di S. Serff posta sopra Val Rosandra. Molto probabilmente si tratta del Castello di S. Servolo dove arrivò per stabilirvisi la Famiglia von Diessen di origini bavaresi ma di antiche stirpe Longobarda imparentata con gli Obertenghi. Quest’ultima Famiglia ricevette in donazione da Pipino il Breve l’Italia dove regnò per un paio di secoli. I von Diessen dovettero dissimulare il cognome perché caduti in disgrazia del pontefice in quanto erano rimasti seguaci di Ario ed in più adoravano le antiche divinità celtiche. Diventarono così i Wolfratshauser, i Kastl, gli Andechs, Meranien, Greifenberg,Gryffenberg, Femberg, Reifenberg, Ramphus, Rampho e finalmente Ranfo. Ma il pedigree rimase scritto nelle sacre carte e nella memoria storica di qualcuno di troppo. 
Quindi andando a ritroso si poteva sempre ricondurli a degli anti Cristo e il “Santo” Uffizio aveva ben donde per mandarti a morte tanto più se c’erano in ballo grosse proprietà terriere e di castella.
Nell’anno mille l’Imperatore Ottone di Sassonia aveva donato lo spuntone roccioso dell’ odierno S.Servolo al vescovo di Trieste che lo aveva fortificato. Proprietà che venne passata ai Patriarchi di Aquileia assieme alla Casata dei nobili Reifenberg che erano loro vassalli. Tale Signoria era incastonata nel “ Comitatus Sancti Justi”che andava da Sistiana a Matteria includendo ovviamente la città di Trieste, Prosecco, Moncolano, Clana, San Sergio, Corgnale e Moccò. Vi erano inclusi anche i feudi minori del Val Rosandra, con i castelli di  Winschinberg e i Beka abitati da nobili tirolesi e carinziani, i Winchinberg (=Fuenfenberg), i Casperg ed i Raspurg ( Raspo ).
Questi erano i controllori del traffico del sale che passava su quella strada per addentrarsi nell’ interno fino alla Carinzia e Stiria. 
Altre 2 importanti torri di vedetta erano poste sul cilione carsico: S.Sergio e Siaris  oggi chiesetta di Siaris).
Moccò deve il suo nome al celtico  Mokko cioè maiale.
Beka era becca cioè dal tedesco Becken, bacino, vasca.
Nel muro della chiesa di Bagnoli c’è incastrato lo stemma dei Winchinberg, uno scudo sannitico troncato in capo al falcone con le ali spiegate.
I Ranfo erano templari devoti agli antichi riti pagani della “ Pietra Sacra” o “Virunum”, una specie di pietra celtica detta “ Scone “ che sta sempre sotto il,trono inglese ed è il più famoso talismano celtico conosciuto.
Una simile pietra si trova ancor oggi in Carinzia vicino ad Arndorf, pochi kilometri a Nord di Klagenfurt, detta la sedia del Arciduca dove si narra si riunivano tutti i nobili ed i capi villaggio per incoronare il nuovo Arciduca o nelle varie festività di tradizione pagana. La pietra era circondata da menhir e la zona era denominata “Cyle Cingrair” ovvero Circolo della Federazione. Sovrastava la pietra un o più alberi di sacra quercia.
L’inizio della fine dei Ranfo si collega alla prematura morte della di lui moglie Malvina che a 34 anni per febbri sconosciute lasciò questa terra ed il marito squassato dal dolore. La notte di Natale era salito in pianto alla chiesetta in Sauris dove in preda allo sconforto e al dolore per la prematura perdita di Malvina svenne a terra. Lo svegliò una processione di contadini che saliva in preghiera e lui riconobbe Jacobus da Ferno che si era associato ai “Guglielminiti” una comunità perseguitata perché ritenuta eretica. Costui aveva il volto deturpato da bruciature  e torture inflittegli dal “Sacro” Uffizio ed era sfuggito miracolosamente dal rogo dove vennero bruciati una decina di suoi correligionari. Quindi era perseguitato per eresia con condanna di morte pendente su tutto l’orbe terracqueo. Fondatrice di tale “setta” fu la Guglielmina di Boemia presunta figlia di Ottone I re di Boemia. Jacobus gli spiegò che era ricercato dai così detti “canes Domini” cioè gli sgherri dell’Uffizio che erano presenti anche tra i 13 capi delle rispettive Casade, numero sacro che significa come già scritto morte o resurrezione, ma per i poveri disgraziati che finivano nelle loro grinfie significava quasi sempre solo morte. Lo pregò di diffidare da loro e dim unirsi ai buoni per far fronte ai Canes Dominis. Gli confessò che si trattava di un inquisitore della Lombardia ma nato a Trieste ed era conosciuto come il “losco”.
Il loro capo all’ epoca era conosciuto dal popolino come il “losco” ma in realtà si chiamava Robert Le Petit famoso per la strage del monte Saint-Aimè nella quale perirono bruciate 183 cristiani, era il 13 maggio 1239. 
Un passo indietro va dovuto al funerale di Malvina che vide schierati autorità da Aquileia a Venezia, Gorizia e i nobili tutti dai vari contadi limitrofi. Inoltre  presenziarono tutte le 13 casate triestine ( che potevano dare la morte ai loro nemici o supposti tali), ed i Cavalieri del Tempio di Gerusalemme e quelli Teutonici con la croce nera dell’ Ordine di Santa Maria dei teutonici di Gerusalemme.
Sulla tomba venne scolpito lo stemma della casata bavarese: Un leone rampante con 6 simboli di Arbutus unedo, detto anche corbezzolo secondo lo schema  3-2-1 su fondo azzurro indaco nel quale spiccava il GIGLIO DORATO, il fiordaliso emblema di antica nobiltà reale.
Il finale alla prossima puntata.
Sergio Lorenzutti