«La storia di Arnaldo Harzarich, angelo delle Foibe condannato di Titini»

Pubblichiamo da Unione degli Istriani
 
Per gli Istriani era diventato “l’Angelo delle foibe”.
 
Arnaldo Harzarich (al centro, nella foto) fu davvero l’angelo buono, quello che riportava alla luce gli innocenti sprofondati nelle gole infernali delle foibe: maresciallo di terza classe del 41° Corpo dei Vigili del Fuoco di Pola, città in cui era nato.
 
Ma era orgoglioso dei natali di sua madre di Veglia, l’isola del Quarnaro, sotto Fiume, in cui per primo comparve nell’Adriatico orientale il leone veneziano di San Marco nel 1250.
 
A metà di ottobre del 1943, passata la prima invasione titina, fu incaricato dal Comandante Gaetano Vagnati di perlustrare alcune foibe in cui si sapeva o supponeva fossero state gettate centinaia di persone, portate via dai partigiani e mai ritornate a casa.
 
Harzarich e la sua squadra iniziarono a scandagliare, per quanto possibile, foiba dopo foiba, in un lavoro che durò dall’ottobre ’43 al febbraio ’45. Descrisse minuziosamente l’opera svolta in un’articolata relazione che rilasciò nel mese di giugno ’45 alle autorità alleate che così si espressero su di lui: “a documentare le atrocità degli Slavi verso gli Italiani dell’Istria, l’interrogato è da ritenersi elemento molto attendibile, degno di ogni considerazione e di ogni aiuto”.
 
In totale recuperò i corpi di 204 infoibati e di un’ulteriore cinquantina di assassinati nelle cave di bauxite o nei pozzi. In pratica, un quarto dei 999 accertati della “prima ondata” titina. Per molte delle salme, pur individuate, il recupero fu impossibile a causa dell’asperità dei crepacci, della profondità degli stessi o dello stato di decomposizione dei corpi. Per il riconoscimento dei parenti furono riportati in superficie brandelli di tessuti, effetti personali o quel che poteva in qualche modo essere un indizio.
 
Impressionante quanto Harzarich raccontò della foiba di Vines, forse la più “famosa” nel triste inventario degli abissi.
 
84 le vittime recuperate tra il 16 e il 25 ottobre ’43, in otto giorni di discese in un inghiottitoio di roccia dove l’aria era resa irrespirabile per la putrefazione dei cadaveri: Harzarich e i suoi uomini (si chiamavano − ed è giusto ricordarli − Giordano Bilucaglia, Mario de Angelini, Giovani Dellore, Mario Valente, Giuseppe Prinz, Giordano Bussani e Bruno Giacomini) si calarono ripetutamente e a turno con gli autorespiratori fino a quota 226 di profondità.
 
Venne costruita un’impalcatura particolare, a piramide, che consentiva attraverso i paranchi di riportare alla luce quanto chi, arrivato sul fondo, poneva nelle sacche attaccate con cinghie alla parte finale della corda.
 
Questa la descrizione di Harzarich, che ripeterà similmente tante altre volte nei due anni successivi: “le vittime hanno i polsi fissati da filo di ferro... sempre stretto (fino a spezzare il polso) con pinza o tenaglia. Molte salme erano accoppiate mediante legatura, sempre da filo di ferro, nei due avambracci. Da notare che dei due disgraziati sempre soltanto uno presenta segni di colpi d’arma da fuoco, il che fa supporre che il colpito si sia trascinato dietro il compagno ancora vivo”.
 
“Nella parte sud della foiba − raccontò ancora Harzarich − a circa 4 metri dall’orlo di essa, vi è un foro cilindrico delle dimensioni di 30 cm di diametro per 10-15 di profondità. Una donna partigiana di Barbana ha narrato trattarsi di un foro in cui veniva inserita una piastra di rame di stazione radio che serviva per la trasmissione in diretta delle uccisioni in massa. La radiotelegrafista sarebbe stata una di oltre 25 anni... Alcune salme colpite da arma da fuoco con penetrazione di proiettili schiacciati nelle pareti della foiba fanno pensare che i partigiani yugoslavi, appostati sugli orli della foiba, si divertissero a
sparare coi mitra, dietro ai precipitati”.
 
Nei primi giorni di novembre Harzarich recuperò altre salme alla foiba di Terli, poi venne quella di Cregli (che aveva già disceso per prima il 16 ottobre senza fortuna, rischiando anzi di rimanervi imprigionato) poi Carnizza d’Arsa, poi Marzana, e ancora Villa Barbi, Antignana, Villa Surani, Treghelizza di Castellier, Mice, Pucicchi di Gimino, Podubboli, Villa Sergi, Villa Orizzi, Cernovizza di Pisino, Caroiba, Ovlogo, Castelnuovo dell’Arsa, Villa Cecchi, Raspo, Rozzo, Semi, Vescovado...
 
Ma furono tante quelle in cui non riuscì a scendere: Jurado, Villa Treviso, Pogliacchi, Villa Saini, Bertarelli, Obrovo, Iadricchi, Podgomilla e altre ancora. Gli abitanti di quei luoghi avevano comunque raccontato delle file dei prigionieri e del nauseabondo lezzo di cadaveri che ne usciva per settimane...
 
Harzarich divenne un angelo ed un eroe per gli italiani, un bersaglio per i partigiani croati. Iniziò a ricevere una lunga serie di lettere minatorie, tutte in croato, con tanto di timbri dei comandi partigiani in cui prima lo “consigliavano” di smettere e poi lo “diffidavano” dal continuare il suo lavoro di recupero delle salme a pena di finire in foiba anch’egli, con la moglie e la figlia.
 
Raccontò: “più e più volte, al mio passaggio, dopo aver esplorato delle foibe, nel rientrare a Pola fui bersagliato del rosario dei colpi di mitra sparati dai partigiani slavi che cercavano con tutti i mezzi di ostacolare l’esplorazione ed il recupero delle salme (...). Una volta tornai a casa con la macchina crivellata di proiettili di mitra, ben 22 colpi, centrato sulla 1100 che guidavo verso le due di notte”. Un giorno la sua auto urtò una mina anticarro e fu sbalzata in aria, ma per gli angeli ci sono i miracoli: fu protetto dal motore e dal cambio che fecero da scudo e gli consentirono di uscire sulle sue gambe dal veicolo distrutto.
 
Harzarich continuò imperterrito: nel Natale del ’44, venne a sapere di essere stato condannato a morte da un “tribunale del popolo” titino e nel marzo del 1945 gli yugoslavi posero addirittura una taglia su di lui di 50.000... Lire italiane.
 
A questo punto fu lo stesso Comando dei Vigili del fuoco di Pola che lo fece allontanare segretamente dalla città: fu tenuto nascosto presso i distaccamenti prima di Isola e poi di Capodistria, quindi raggiunse Trieste da dove, sfuggendo alla “quarantena titina” si spostò in Friuli e Veneto.
 
Esule dalla sua Pola, subì l’umiliazione indegna di non essere riassunto in servizio dal Comando dei Vigili del fuoco di Venezia a seguito di una denuncia anonima e luridamente falsa che lo accusava di essere stato un rastrellatore di partigiani...
 
Sara Harzarich, la nipote del maresciallo, che vive a Pagnacco in provincia di Udine ove è stato eretto un cippo in sua memoria raccontò: “Avevo tredici anni quando zio Arnaldo è scappato da Pola, perché i titini lo cercavano per eliminarlo. Ricordo che la nonna non si dava pace e ogni sera voleva sapere se suo figlio Arnaldo fosse tornato a casa sano e salvo. Una sera mi chiese di accompagnarla ma appena arrivati nella sua casa, ci accorgemmo che la porta era aperta, tutto era in disordine, non c’era più nessuno, erano venuti i titini per arrestarlo, ma lui era riuscito a fuggire con una scala dalla finestra”.
 
Arnaldo andò esule a Bressanone ma le spie dell’Ozna lo trovarono anche là e gli fecero un attentato: “Un tizio uscì da un cespuglio vicino a casa sparando con una pistola, ma lo zio si salvò perché si era girato verso casa, dato che la moglie Stefania lo aveva richiamato per un ultimo bacio. Ecco, fu quel bacio a salvargli la vita Il bacio di un angelo".
 
Era il 1973 quando l’angelo delle foibe, esule in terra, dopo tante discese agli inferi, volò via per sempre per andare a scalare le montagne di luce del cielo.
 
(dal volume di R. Menia "Dalle Foibe all'Esodo", 2020)