“Metallaro del treno, se mi leggi... cercami”: appello romantico di una triestina timida tra poesia e speranza

“Metallaro del treno, se mi leggi... cercami”: appello romantico di una triestina timida tra poesia e speranza

Il 14 maggio un fugace incontro su un treno ha acceso una scintilla: lei, innamorata e riservata, lo cerca ora attraverso le pagine di Trieste Cafe. In fondo all’articolo, il racconto e la poesia che ha scritto per lui.

C’è chi aspetta per tutta la vita un incontro capace di scuotere le certezze, rompere la routine e riaccendere le emozioni sopite. Questo è ciò che racconta, con parole profonde e cariche di lirismo, una nostra lettrice triestina che ci ha scritto chiedendo aiuto per ritrovare un uomo che ha incrociato il 14 maggio scorso su un treno regionale.

Non conosce il suo nome. Sa solo che è triestino, ascoltava musica metal in cuffia, e che quel giorno le loro timidezze si sono toccate, guardate e sfiorate tra un sorriso e poche parole, in un gioco di sguardi che lei non ha più dimenticato.

Lei, che desidera restare anonima e preferisce usare uno pseudonimo, racconta di essere una persona molto riservata, che si stava recando al lavoro quel giorno per affrontare una decisione importante. Un addio, un cambiamento, un salto nel vuoto. Quel viaggio avrebbe dovuto essere solo una parentesi. Invece, è diventato un inizio mai vissuto.

Lui sa dove lei lavora e di cosa si occupa. Se lo desiderasse, potrebbe risalire alla sua identità. Ma forse ha bisogno di un piccolo segno. Un richiamo. Una poesia. Ecco perché lei ci ha chiesto di pubblicare queste parole, nella speranza che lui le legga, si riconosca e decida di cercarla.

Chi volesse mettersi in contatto con lei può scrivere a:
📧 redazione@triestecafe.it

📖 RACCONTO: “La tempesta e l’onice”

Una tempesta stava attraversando la sua vita. Eppure, non c'era stordimento o dolore nella sensazione che la travolgeva. Era una burrasca come quelle dei giorni più lunghi dell'estate, attesa con ansia dall'aridità fumosa dell'asfalto. Una tempesta di quelle che rinverdisce le crepe, che sembra ridare voce agli uccelli ansimanti che pochi minuti prima zoppicavano con le ali cadenti.

La sua vita, in effetti, era diventata un soffocamento, anche se inclemente, paralizzante. I gesti meccanici dell'abitudine avevano sostituito sul suo volto le imprevedibili contrazioni dell'affetto, della gioia, della sorpresa e persino della tristezza e della disperazione. Sì, perché lei non piangeva più da tempo. Né sperava. Né si addolorava per la sua immobile disperazione. Eppure, quel 14 maggio, ogni cosa era stata tolta dal suo posto abituale. Senza dubbio si era scatenata una burrasca.

Dopo una notte di insonnia alla ricerca delle parole giuste, si stava recando al lavoro. Era il giorno di rinunciare. Di abbandonare tutto. Ma no, non era un salto nel vuoto, e forse non era nemmeno una scelta. C'era una tempesta, ma lei, leggera, era una foglia nell'aria, senza il peso per farsi strada mentre camminava. Non aveva mai abbandonato un lavoro, ora era costretta a farlo, aveva vinto un bando che le permetteva di lasciare una precaria borsa di studio per la quale era troppo qualificata. E doveva verbalizzarlo e affrontare la tempesta.

Non era mai stata in grado di leggere o scrivere sui treni, e la sua vita di pendolare prolungava la sensazione di un tempo morto e senza senso. Quella mattina, tuttavia, si concentrò sull'articolo che si era rifiutato di fiorire in sei mesi di duro lavoro e frustrazione. E per i perversi capricci della vita, in quel momento fiorì.

Lei se ne accorse chiaramente quando lui salì e si sedette di fronte a lei. Fu il fulmine che culminò la burrasca. Bruciante, allentò i suoi muscoli. Come le prime gocce di pioggia che cadono impetuose sulla scia del fulmine, sul suo corpo cominciarono a comparire i primi sorrisi e il tremolio incontrollato delle gambe che si toccano. Sentì lo sguardo redentore del disgelo, sentì il tocco elettrico di quegli occhi che le restituivano il riflesso della sua passione. Volevano toccarla, accarezzarla e, in un gioco fatale di timidezze che si allacciano, lasciarono sfuggire le parole dell'incontro.

Sui suoi occhi neri pesava il fascino del presente. E decisero, codardi, di rifugiarsi quella mattina dietro lo schermo del computer, che raramente osava aprire durante i viaggi, su quell'articolo che fatalmente scorreva, proprio quella mattina, nonostante i vortici della sua vita. Gli occhi del viaggiatore li cercavano, lo sentiva con piacere, e solo per qualche istante accondiscese, nervosamente, a quell'abbraccio incandescente che si sciolse in sorrisi prima di tornare rapidamente al lavoro, lasciandolo sommerso nella musica che emergeva dalle sue cuffie, quella musica metal che anche lei amava.

La fermata successiva del treno era la sua. Chiuse il computer. La voce del viaggiatore la raggiunse. Lui proseguiva fino a Trieste. Ma lei cosa poteva dirgli di sé? La sua vita era una geografia instabile dove non c'erano indizi per il prossimo incontro. La storia di un treno preso regolarmente che, da quel giorno, non avrebbe più dovuto prendere. Tutte le domande, solo una settimana prima, avrebbero avuto un'altra risposta e un'altra possibilità.

Alla fine di tutto, rimangono solo le rovine. Alla fine delle rovine rimangono solo le pietre. Lei indossava gioielli di onice nero. Naufragati dalla passione, il loro ultimo scambio di parole fu un disperato tentativo di continuare la conversazione con il pretesto delle pietre, o delle rovine. Impararono, faccia a faccia, che l'onice è una varietà di agata o calcedonio. Appresero che è composta da silice. E che può essere non solo nera, ma anche gialla, o rossa, o alabastro.

📝 POESIA: “Ti chiamerò Tri(e)ste”

Ti chiamerò Tri(e)ste, ma non chiamarmi Onice.
Onice rosso, onice nero, onice alabastrino
colori di metafore rugginose
Come l’anima mia
Che cerco di lucidare con rassegnata eppur frenetica ostinazione.

Sangue, lutto, pallidità, malinconia
Parole vuote con cui si è voluta mascherare
prima, l’ingenuità, poi, la delusione.
Eterno ritorno di ciò che non funziona

Ti chiamerò Tri(e)ste
Terra illusoria che non può essere nemmeno dell’assenza
Per i miei occhi mai serenati nel suo mare
Per le mie labbra mai ferite dal suo sale

Ti chiamerò Tri(e)ste e ti cercherò
Nel paese dei treni che non tornano
Dei piedi che fingono incrociarsi ciechi, spensierati
Dei sorrisi che scuotano come colpi di lampo
Delle parole assurde quando si gioca il tutto
Dei pentimenti
Della nostalgia delle cose mai vissute
Dell’amore
Della rinuncia non voluta
Della mia maledetta timidezza
Che odio in me ma mi trascina verso le mani tremanti che non osso toccare

Ti chiamerò Tri(e)ste
Ma se tu volessi cercare una parola per ricordarmi
Dall’impossibilità, ti sussurrerò: chiamami Sisifo
Eternamente Triste e condannata

📧 Per contattare la redazione e aiutare questa storia d’amore a trovare il suo lieto fine, scrivere a:
redazione@triestecafe.it